giovedì 19 maggio 2016

Teoria del drone


Ore 0:45 GMT – 5:15 in Afghanistan

Il pilota: Cazzo, quello è un fucile?!
L’operatore: Boh, è solo una macchia calda dove sta seduto, non posso dirlo, comunque sembra proprio un oggetto.
Il pilota: Ah, speravo saltasse fuori un’arma, vabbè.
Ore 1.05
L’operatore: Sto camion sarebbe un bel bersaglio. È un 4x4 Chevrolet, un Chevy Suburban.
Il pilota: Sì.
L’operatore: Eh, sì.
Ore 1.07
Il coordinatore: Lo screener dice che c’è almeno un bambino vicino al 4x4.
L’operatore: Vaffanculo… dov’è?
L’operatore: Mandami una cazzo d’immagine, ma non credo che ci siano bambini a quest’ora, lo so che sono strani, ma insomma...

L’operatore: Boh, sarà un adolescente, comunque non ho visto niente di piccolo e sono tutti raggruppati là.




 Questa che avete appena letto è la trascrizione di una parte della conversazione tra i membri dell’“equipaggio” che guida un drone Predator in volo sull’Afghanistan il 20 febbraio 2010. Sono tranquillamente seduti sulle loro poltrone nella base di Creech, negli Stati Uniti. Il colloquio, a tratti concitato, va avanti per parecchi minuti e si conclude con il lancio di un missile e l’arrivo di due elicotteri Kiowa, chiamati per completare l’azione contro il camion intercettato.

Lo riporta Grégoire Chamayou, storico e filosofo francese, nelle pagine iniziali del suo libro, Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere (Derive Approdi, tr. it. di Marcello Tarì). Al termine del loro turno, pilota e operatore saliranno sulla loro automobile e torneranno nelle loro villette alla periferia di Las Vegas, dove vivono con moglie e bambini. Il loro posto sarà preso da un altro equipaggio. Lo racconta un altro analista dei droni, William Langewiesche, giornalista e scrittore americano, in un piccolo libro, Esecuzioni a distanza (Adelphi).

Si tratta di due dei primi libri tradotti in italiano e dedicati al nuovo strumento di sorveglianza e punizione, il drone, la cui presenza sta diventando assidua sulle pagine di quotidiani e settimanali americani ed europei. Mark Bowden, autore di un libro sulla caccia a Bin Laden (La cattura, Rizzoli 2012), gli ha dedicato un’ampia inchiesta sulle pagine di «The Atlantic», tradotta su «Internazionale» nel mese di ottobre dello scorso anno: “Macchine che uccidono”.

Dall’11 settembre 2001 i droni (il nome viene dal verbo to drone, ronzare) sono sempre più usati dall’esercito americano e dalla CIA per compiere missioni in territori lontani dagli Stati Uniti, senza implicare l’uso diretto di soldati sul campo. Il loro nome tecnico è Remotely Piloted Aircraft, aerei a pilotaggio remoto. I guidatori stanno infatti seduti in una base statunitense mentre il RPA diventa il loro occhio ed esplora zone poste a oltre 13.000 chilometri di distanza. La quota a cui volano solitamente è 4500 metri sopra il livello del suolo. Langewiesche spiega che si tratta di aeroplani cui è stato tolto il sedile di guida, trasferito a terra; sono un occhio sospeso sulle teste di popolazioni situate in zone di guerriglia, o di guerra a bassa intensità, territori allertati dai militari americani.

Con il governo di Obama l’uso dei droni si è ulteriormente intensificato, scrive Mark Mazzetti, giornalista del «New York Times», Premio Pulitzer, in un altro libro di recente traduzione, Killing machine (Feltrinelli), dedicato alle azioni compiute dalla CIA nell’invisibile guerra che si sta giocando sullo scacchiere mondiale. Spesso alla guida dei droni ci sarebbero dei “civili”, agenti della CIA. Nell’ultimo capitolo del suo dettagliatissimo reportage, intitolato “Fuoco dal cielo”, Mazzetti racconta l’eliminazione di al-Awlaki, cittadino Americano, iman di Detroit legato ad al-Qaeda e in contatto con Bin Laden. Due settimane dopo la sua uccisione, il figlio, Abdulrahman al-Awlaki, seduto assieme ad amici in un ristorante all’aperto nei pressi di Azzan, nello Yemen, sente un flebile ronzio: il missile centra inesorabilmente il locale. Il ragazzo, scrive Mazzetti, non compariva in nessun elenco di ricercati o nella terribile lista della CIA dei bersagli programmati sottoposti al presidente quasi ogni settimana. Un errore.

I droni, afferma Chamayou, citando studi americani della Air Force, sono oggi l’arma low cost per eccellenza secondo una doppia logica economica: il valore delle vite umane in gioco e i costi finanziari. Dal momento che sostituisce la presenza di soldati sul campo, il drone viene anche definito dai teorici delle forze armate americane “arma umanitaria per eccellenza”.

Dove nascono? Nel 1964 un ingegnere, John W. Clark, redige uno studio preliminare sulle “metodologie dell’ambiente ostile”. L’idea alla base è far operare delle macchine, chiamate da Clark telechiriche (“tecnologie di manipolazione a distanza”), in situazioni che possono mettere in pericolo i corpi degli operatori umani. Sono gli anni in cui nella fantascienza scritta e cinematografica appaiono robot che si fanno la guerra senza la presenza dei soldati: tornei di macchine senza vittime umane. Nel 1965, non a caso, Susan Sontag pubblica un saggio sul cinema fantascientifico americano di serie B, intitolato Immagini del disastro, poi raccolto in Contro l’interpretazione (1967). Chamayou retrodata la nascita del drone, mostrando come questo derivi direttamente da Hollywood. Nel 1944 un ex attore del muto si mette a produrre aeromodelli: il drone, scrive Chamayou, nasce sotto “il segno della finzione”; nel corso della Seconda guerra mondiale sono usati per l’addestramento dei militari.



 Il vero e proprio utilizzo bellico del drone data 1973, durante la guerra del Kippur: l’esercito israeliano, all’avanguardia, utilizza questi veicoli senza pilota, poco più che aeromodelli, come esche per individuare le batterie anti-aeree egiziane. Queste sparano missili terra-aria contro i piccoli aeroplani, e subito i veicoli israeliani le individuano e colpiscono. Negli anni successivi il drone “Mastiff”, prodotto dall’esercito d’Israele, è utilizzato per spiare le postazioni nemiche.

Se vogliamo ricostruire la genealogia del drone attuale bisogna però anche rifarsi agli aerei spia usati dagli Usa durante la Guerra fredda. Nel suo libro La guerra nell’era delle macchine intelligenti, pubblicato all’inizio degli anni Novanta, Manuel De Landa, messicano, film-maker, saggista, ex performer, studioso di complessità, ha cercato di guardare lo sviluppo della guerra tecnologica attraverso gli occhi di un futuro robot cui è affidato l’incarico di redigere un resoconto storico analizzando le tecniche belliche a partire dalla prima Guerra del Golfo. Le bombe intelligenti, i missili autoguidati, e gli stessi droni, incamerano nelle macchine strutture cognitive proprie degli esseri umani. De Landa utilizza le opere di Deleuze e Guattari, le teorie del caos e quelle dei giochi, e ricostruisce, a partire dal Seicento, passando per Napoleone sino alle teorie cibernetiche-satellitari degli anni Ottanta del XX secolo, l’integrazione tra corpi umani e macchine.



 Chamayou in Teoria del drone si sofferma invece sulla responsabilità umana implicata, e discute i presupposti e le conseguenze etiche legate alla relazione tra uomo e macchina. Gli operatori umani “vedono” a distanza e decidono, sulla base della loro esperienza, ma anche di protocolli preordinati, se intervenire o meno, premendo pulsanti per lanciare missili che uccidono uomini e distruggono mezzi ed edifici. Il fattore umano, che Landa vedeva più remoto e incorporato dalle macchine, secondo la visione post-umana dell’epoca, per lo storico francese è invece decisivo nel funzionamento delle macchine volanti. L’occhio meccanico del drone è attualmente utilizzato dagli equipaggi come uno strumento per guardare e decidere l’azione, per quanto non sia improbabile supporre un’evoluzione successiva di automazione dello sguardo e dell’azione bellica.

Oggi non si tratta più di occupare un territorio attraversandolo con truppe e mezzi meccanici, quanto piuttosto di controllarlo dall’alto, assicurandosi il dominio dal cielo. Peter Sloterdijk aveva evidenziato questa trasformazione – il controllo dell’“atmosfera” – a partire dalla Prima guerra mondiale nel breve saggio Terrore nell’aria (Meltemi), dove delineava, dodici anni fa, una genealogia partendo dall’uso dei gas al cloro nel corso del primo conflitto mondiale. Eyal Weizman, architetto israeliano che insegna a Londra, autore di Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori), studiando il muro che oggi separa israeliani e palestinesi, ha chiarito come il motto ora prevalente sia: “tecnologia invece di occupazione”. Quella dei droni sarebbe una strategia di verticalizzazione del potere di dominio, una forma di autorità ultraterritoriale.

Nelle teorie belliche contemporanee il potere aereo non è più concepito come uno spazio omogeneo e continuo, come poteva ancora essere nel corso della Seconda guerra mondiale, quanto come un patchwork di caselle cui corrispondono regole diverse. Le caselle, dice Chamayou, sono dei cubi. Nell’immagine formulata dai gestori dei droni si tratta di cubi-scatole, box, affiancati gli uni agli altri per delimitare lo spazio aereo. Vengono chiamati kill box, cubo della morte: “immaginiamo una serie di cubi allineati sulla griglia in uno schermo in 3D; il teatro delle operazioni diventa una sfilza di scatole trasparenti”. Come funziona questa immagine tra il virtuale e il reale? Sono zone tridimensionali di azione: “dentro il cubo, fuoco a volontà!” Una struttura a mosaico che rende astratta l’azione d’attacco, la controlla e ne decide la fine, come se si trattasse di un videogioco. Ricorda i combattimenti di Guerre stellari (1977), film-modello di molta guerra digitale successiva.



 Non è solo lo spazio verticale, il cielo, a essere sempre più occupato da veicoli senza piloti, come i Predator e Reaper, piccoli aerei con un missile sotto la pancia. Si ipotizza l’entrata in campo di droni in miniatura: insetti robotizzati autonomi, in grado di volare in spazi sempre più piccoli. Chamayou arriva a immaginare che le camere da letto o gli uffici possano diventare zone di guerra grazie a questi piccoli robot volanti. Così il box sarebbe ridotto a pochi centimetri di lato: invece di distruggere un intero palazzo per far fuori un presunto terrorista, si può eliminare l’individuo passando per l’appartamento e restringere l’impatto dell’esplosione telecomandata a una stanza o persino a un corpo soltanto, lasciando intatto tutto l’intorno. Una riposta tecnologica agli uomini-bomba, agli attentatori suicidi degli ultimi anni. Se Carl Schmitt dovesse scrivere oggi la sua Teoria del partigiano, dice Chamayou, non si rivolgerebbe più all’elemento tellurico – la Terra – bensì a quello stratosferico – il Cielo –, perché l’aria è diventa, come ha visto Sloterdijk, lo spazio del conflitto.

Gli attuali veicoli senza pilota possono restare in volo per molto tempo: uno sguardo costante 24 ore su 24. Chamayou usa una definizione icastica: “occhio meccanico senza palpebre”. Mentre il veicolo vola, nella base a terra gli equipaggi si alternano con tre turni di otto ore ciascuno: “veglia geospaziale costante dello sguardo di Stato”. Siamo al Sorvegliare e punire di Michel Foucault, dove, al posto del Panopticon di J. Bentham in cui il guardiano osservava giorno e notte ciò che accadeva nelle celle dei prigionieri disposte a semicerchio davanti al suo punto di osservazione, c’è il drone. Lo spazio di osservazione è dilatato: un immenso territorio straniero tenuto sotto controllo (“wide area surveillance”). L’autore di Teoria del drone parla anche di una futura “iconografia sinottica”: decine di micro-camere ad alta risoluzione, simili agli occhi plurimi di una mosca, che osservano tutto, mentre un software riunisce in tempo reale le differenti visioni parziali, realizzando così una sola vista d’insieme con la continua possibilità d’aggiungere dettagli a volontà. Lo storico francese sottolinea che il drone può anche intercettare comunicazioni elettroniche, telefoni cellulari o altri apparecchi di comunicazione, e trasferire i dati sensibili al computer a terra, nella base americana, al riparo da tutto, ricevendo informazioni che gli permettono di agire sul territorio che sorvola: orecchio a distanza. Uno dei teorici di questa sorveglianza-totale, ipotizzata dalle forze aeree statunitensi, sostiene che, se si riuscisse a tenere sotto sorveglianza un’intera città, si potrebbero rintracciare le autobombe dal momento in cui vengono caricate sui mezzi. La capacità di stoccaggio dei dati degli attuali computer fa sì che non si sia poi troppo lontani, almeno in teoria, da un simile risultato. Nel 2009 i droni americani in volo hanno prodotto l’equivalente di 24 anni di registrazioni video.

Alla base di questo sviluppo visivo ci sarebbe lo sport americano. Larry James, direttore del settore informazioni, sorveglianza e riconoscimento della Air Force, ha detto che “in materia di raccolta di dati, le tv sportive sono più avanti dei militari”. Tra registrazioni dei diversi punti di vista del gioco, ricostruzioni virtuali delle azioni, catalogazione dei movimenti degli atleti, i software delle televisioni che seguono eventi sportive – partite di basket, baseball, calcio americano – sono già molto sofisticati. Il travaso nell’area militare è in corso. Walter Benjamin in un preveggente testo degli anni Trenta, Teorie del fascismo tedesco, dedicato a un’antologia curata da Ernst Jünger, spiegava come la guerra futura avrebbe liquidato le tradizionali categorie militari a favore di quelle sportive: “toglierà alle azioni ogni carattere militare e le porrà tutte all’insegna del record”. Questa tecnica visiva, di registrazione e archiviazione d’immagini e dati, fa pensare che le previsioni di De Landa non siano poi così esagerate, dal momento che le macchine potrebbero, come sostiene lo stesso Chamayou, inserire loro stesse in modo automatico megadati e “tags”, usando raffinati programmi e algoritmi come quelli ora utilizzati per investigare e classificare i gusti dei frequentatori dei social network. Appare così il fantasma della “macchina-scriba”, una sorta di archivista-volante, che redige in tempo reale un rapporto su ogni minima attività in corso di svolgimento sotto il suo occhio, laggiù sul terreno di guerra. Tutti, a quel punto, sarebbero “ricercabili”, in Afghanistan come in Italia, in Somalia come negli Stati Uniti.



 La visione del mondo cambia radicalmente, e là dove noi, sorvolando un territorio, vediamo dal finestrino di un aeroplano la seducente forma orografica di quello spazio, il drone, grazie ai diagrammi cronogeografici, elaborati dal geografo svedese Torsten Hägerstrand negli anni Sessanta, vede il tutto in tre dimensioni: dove, quando, cosa. La geografia serve a fare alla guerra, s’intitolava un libro di Yves Lacoste apparso negli anni Settanta, che aveva suscitato lo scandalo dell’accademia, ma che si rivela ancora vero. La cartografia si era proposta di realizzare mappe che fossero a tre dimensioni, mostrando anche i percorsi di vita degli abitanti del territorio allo scopo di impedire incidenti o derive varie. Oggi quelle carte sono diventate uno dei pilastri della “sorveglianza armata”.

L’obiettivo è quello di seguire una pluralità di individui attraverso le reti sociali e costruire un pattern delle loro attività, in modo da prevedere in tempo reale attività sediziose o la nascita di possibili rivolte. Un analista della Air Force ha affermato che l’attività del drone, che oggi uccide a comando in Afghanistan, come in altre regioni calde del Pianeta, è a metà strada tra il lavoro poliziesco e le scienze sociali.

Il nodo è comprendere le “forme di vita” (concetto elaborato dalla filosofia fenomenologica con tutt’altro scopo) e le possibili deviazioni dai modelli fissati come “normali”. Nel momento in cui si annuncia il tramonto dei saperi umanistici, disertati da studenti e risorse nelle università americane ed europee, questo campo di studi fortemente umanistico sembra invece interessare le autorità militari, gli specialistici degli eserciti e dei servizi segreti, poiché, come mostra la tecnologia del drone, la conoscenza del futuro si fonda sulla conoscenza del passato.

Una delle tesi forti del libro di Chamayou è che la guerra non viene più pensata alla Clausewitz come un duello, bensì come una caccia. Il tema era già presente nel suo precedente volume, Le cacce all’uomo (Manifestolibri 2010): “il paradigma non è più quello di due lottatori che si scontrano, ma quello del cacciatore che bracca una preda che fugge e si nasconde”. L’obiettivo primario non è infatti immobilizzare il nemico, bensì identificarlo e localizzarlo, il che comporta appunto un serrato lavoro di investigazione. In questo la topografia delle connessioni, tecnica utilizzata oggi dalle aziende commerciali per il profiling degli utilizzatori dei social network, con cui si modellizza il cliente potenziale, viene posta alla base delle cartografie belliche: “Le carte topografiche delle connessioni servono a comporre dei veri e propri ‘forum’ sociali o ambientali che collegano gli individui tra loro”. Il nemico non è più concepito come un anello nella catena del comando gerarchico, quanto come un “nodo” inserito nella rete. Dietro a queste teorie belliche ci sono autori di “sinistra” come Deleuze e Guattari. Il loro Millepiani, testo dalla forte valenza sovversiva, come ho mostrato nel capitolo “Il buco” di L’età dell’estremismo (Guanda), è oggi utilizzato dai militari israeliani per pensare topologicamente l’intervento militare nei campi profughi palestinesi.

Un altro dei punti salienti, su cui l’autore si sofferma lungamente, è quello del drone “arma del terrorismo di Stato”. Le macchine volanti che operano oggi sul campo non sono armi strategiche, bensì tattiche. In questo modo la stessa idea di strategia sembra perdere forza a vantaggio dell’ampliamento abnorme della tattica. I gadget elettronici portano di fatto alla fine di ogni vera strategia di fondo, che è sempre stata legata a scelte politiche, a decisioni del comando politico anche nel corso degli eventi bellici. La tecnica attuale, il dominio del computer e delle tecnologie connesse, porta al decadimento della politica quale sistema di orientamento generale. Ogni decisione sottoposta ai politici dai militari è sempre più una decisione tattica. La tattica è oggi la vera strategia.



 Chamayou è senza dubbio pessimista (oltre che inconsciamente affascinato dai droni): leggendo il suo saggio si è indotti a riflettere su come le nuove tecnologie, fondate sullo spirito collaborativo – “l’intelligenza della folla” –, possano contribuire a limitare la libertà individuale invece che ampliarla, come saremmo portati a credere. Non è detto che vada a finire così, tuttavia leggendo il libro dello storico e filosofo francese si coglie molto bene come settori dell’amministrazione americana, che permangono al di là del cambio dei presidenti, stiano usando i new media per azioni belliche presenti e future, per azioni di controllo.

Il libro dello storico francese aiuta a ragionare su queste questioni, il problema di fondo è la critica del drone come arma morale e gli ultimi capitoli sono dedicati a una disanima dettagliata delle varie tesi giuridiche circa il suo uso. Chamayou considera le teorie elaborate nelle accademie militari americane da intellettuali, studiosi e alti gradi. Tuttavia una domanda sorge spontanea vedendo l’attuale diffusione dei droni in ambiti non solo militari: è possibile usare i droni anche per scopi pacifici? Chamayou racconta come nell’ambito delle sottoculture, oggi in crescita esponenziale, ci sia un utilizzo differente di questo strumento di visione a distanza.
Si tratta del “DIY drone”, il drone fatto in casa, per cui, ad esempio, un personaggio come Francis Fukuyama, autore di La fine della storia?, è un appassionato di droni e se li costruisce in garage per poi mostrarli nel suo blog . Chris Anderson, autore di vari libri, tra cui Makers (Rizzoli), ha lasciato la direzione della prestigiosa rivista «Wired» per fondare una sua azienda, 3D Robotics, che produce oggi circa 100 droni al mese usando le tecnologie in 3D. I droni “civili” sono usati nell’architettura, nel rilevamento, nella sorveglianza di siti archeologici, di boschi, e altro ancora. Equipaggiati con minitelecamere questi apparecchi, costruiti con poche centinaia di dollari (Anderson li offre a 600 dollari l’uno), possono offrire visioni straordinarie dello spazio che abitiamo.

Chamayou ricorda una tesi di Walter Benjamin secondo cui la tecnica, sottratta al suo uso mortifero, può ritrovare le sue potenzialità emancipatrici rianimando l’aspetto estetico e ludico, che è sempre presente negli oggetti tecnologici, di cui costituisce la vera anima. Non so se tutto questo può farci sperare in qualcosa di diverso dall’uso terribile dei droni nei territori di guerra a bassa intensità o nella caccia ai terroristi. Certo i droni amatoriali costituiscono una possibile soluzione di pace, e il loro occhio non è necessariamente uno strumento di morte.



Fonte: Doppiozero

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