giovedì 18 febbraio 2016

Internet of Things per sorvegliare, identificare, monitorare e individuare persone e cose



I gadget intelligenti in casa, in auto e addosso? Roba buona per spiarci

L’allarme arriva da James Clapper, capo dell’intelligence statunitense: “Le agenzie potranno sfruttare l’Internet of Things per sorvegliare, identificare, monitorare e individuare persone” 


Domotica, auto sempre più intelligenti se non a breve autonome, gadget di ogni genere, molti dei quali indossabili.Integrati cioè ovunque, dalle t-shirt alle scarpe passando appunto per gli apparecchi di casa (dal termostato al tv fino al frigorifero), gli apparati medicali o gli impianti più complicati come le reti di distribuzione energetica. Tutta roba buona, buonissima per lo spionaggio di Stato. Il re era nudo ma James Clapper, grande capo dell’intelligence statunitense, l’ha privato anche dell’ultimo panno appeso alla vita.

Intervenendo in due commissioni del Senato statunitense il direttore dei servizi segreti a stelle e strisce ha dichiarato che i governi di tutto il mondo non vedono l’ora, e anzi già si stanno scatenando, di impiegare il cosiddetto Internet of Things, l’internet delle cose come uno strumento di spionaggio. Un ulteriore elemento di instabilità globale che promette di aggiungersi alle epidemie, al terrorismo (e anzi di essere penetrato da esso), ai cambiamenti climatici e all’intelligenza artificiale.


È la prima volta che Clapper suggerisce uno scenario del genere: gli oggetti intelligenti che stanno invadendo le nostre vite quotidiane come piccoli sensori in grado di drenare dati, informazioni, posizioni a fini di sorveglianza. A ben vedere una situazione cavalcabile senza problemi dalle stesse agenzie di sicurezza statunitensi, d’altronde al centro del clamoroso scandalo del Datagate sollevato dall’ex consulente Edward Snowden oggi rifugiato in Russia. Clapper non ha ovviamente fanno nomi. Non gli è sfuggito né un Paese né un’agenzia. Tuttavia il rischio esiste. Anzi, è pressoché certo.

Lo ha testimoniato anche un recente studio del Berkman Center for Internet & Society dell’università di Harvardche tuttavia – guarda un po’ – piazza proprio le autorità statunitensi sul banco degli imputati. “I dispositivi intelligenti incorporati nelle reti elettriche, nei veicoli, inclusi quelli autonomi, negli strumenti per la casa stanno aumentando l’efficienza, il risparmio energetico e la convenienza – ha detto Clapper – tuttavia gli analisti del settore della sicurezza hanno dimostrato che molti di questi sistemi possono mettere a rischio la privacy, l’integrità dei dati e la continuità dei servizi stessi. In futuro le agenzie potranno sfruttare l’Internet of Things per sorvegliare, identificare, monitorare, seguire e individuare persone o sottrarre credenziali per l’accesso alle loro reti”. Uno scenario da Datagate 2.0, se possibile ancora più inquietante di quello venuto alla luce tre anni fa eppure supportato da una serie di fatti avvenuti negli anni scorsi, sia nei Tribunali che nel mondo dell’elettronica di consumo (Samsung ritirò per esempio un tv che spiava e registrava a insaputa degli utenti).

Un tassello, ha detto il capo dell’intelligence Usa a un’altra commissione, che si aggiunge ai tanti rischi globali già in corso: dalle epidemie (Zika è molto sentita negli Stati Uniti) alle instabilità dei governi passando per i 60 milioni di rifugiati in tutto il pianeta. Oltre ai cambiamenti climatici, alla conseguente domanda di cibo e acqua e infrastrutture inadeguate. Un bel quadretto, non c’è che dire. Ci mancavano solo gli spioni nei forni intelligenti o nei termostati smart.

L’innovazione è fondamentale per la nostra prosperità economica ma porterà nuove vulnerabilità – ha aggiunto –l’internet delle cose connetterà decine di miliardi di nuovi dispositivi fisici da utilizzare. L’intelligenza artificiale consentirà ai computer di prendere decisioni su dati e sistemi fisici e, potenzialmente, ribaltare il mercato del lavoro”. È proprio di ieri la decisione della National Highway Traffic Safety Administration che ha di fatto messo sullo stesso piano i computer dei veicoli autonomi ai guidatori in carne e ossa. FONTE


Cos’è l’Internet delle cose?





Orologi, bracciali, termostati e mille altri oggetti possono connettersi alla Rete: secondo una ricerca, nove persone su dieci lo ignorano, anche se li possiedono già. Spieghiamo i motivi di un successo che si fa attendere

Di Antonio Caffo

Quanti di voi conoscono il significato di “Internet degli oggetti” o, in lingua madre, “Internet of things” (IoT)? Seppur se ne parli spesso negli ultimi tempi, pare che la nozione non sia molto familiare all’utente medio, colui che ha una discreta dimestichezza con gli strumenti tecnologici ma non può essere considerato un esperto. A evidenziare una certa ignoranza in materia, normalissima vista la tematica in ascesa ma ancora di nicchia, è una ricerca di Acquity Group (che si scarica qui ), agenzia parte di Accenture, da cui risulta come circa l’87% dei duemila intervistati non abbia mai sentito parlare di “Internet degli oggetti”.  

Il report “The Internet of Things: The Future of Consumer Adoption ” contiene degli evidenti paradossi, soprattutto a livello etimologico. Ad esempio si legge come il 30% dei consumatori possegga già un dispositivo che rientra nella categoria “Internet degli oggetti”, tra cui un termostato, un orologio o un braccialetto connesso, ma non sanno di potersi vantare di avere un “IoT” tra le mani. Insomma quello che manca sembra essere una corretta campagna di comunicazione e promozione dei nuovi gadget che si apprestano a invadere negozi e catene specializzate. Giusto per essere ancora più precisi, orologi e bracciali, grazie alla possibilità di essere indossati, rientrano nella categoria chiamata “wearable”, ovvero di oggetti che ognuno può mettere al polso o (nel caso dei Google Glass) sugli occhi, per interagire in modo innovativo con il web. 

Ma come spiegare cosa si intende per “Internet degli oggetti”? Lo abbiamo chiesto a Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Sociologia dei media digitali all’Università di Catania: “L’espressione “Internet delle cose” indica una famiglia di tecnologie il cui scopo è rendere qualunque tipo di oggetto, anche senza una vocazione digitale, un dispositivo collegato ad internet, in grado di godere di tutte le caratteristiche che hanno gli oggetti nati per utilizzare la rete”. Attualmente le proprietà degli oggetti connessi sono essenzialmente due: il monitoraggio e il controllo. Monitoraggio vuol dire che l’oggetto può comportarsi come sensore, ovvero essere in grado di produrre informazioni su di sé o sull’ambiente circostante.  

Ad esempio: un lampione IoT non solo può rivelare se la propria lampada è funzionante oppure no, ma potrebbe anche analizzare il livello di inquinamento dell’aria. Controllo vuol dire che gli oggetti possono essere comandati a distanza senza tecnologie particolari ma attraverso internet”. I campi di applicazione sono innumerevoli, il limite è solo la fantasia. “Attualmente i settori più interessati sono la domotica, in cui gli oggetti IoT invadono le tecnologie casalinghe, compresi gli elettrodomestici, e le smart cities, dove le città diventano produttrici di dati e sono controllabili a distanza”. È il caso dei totem digitali presenti nelle principali capitali in tutto il mondo, che possono indicare il numero di pedoni presenti ad una fermata del tram, gli smartphone connessi ad un hotspot pubblico e tanto altro.  

Nonostante le principali aziende abbiano lavorato molto per far conoscere al mondo le nuove possibilità dell’Internet of Things, il report di Acquity Group ha rilevato una certa mancanza di interesse verso i dispositivi connessi. La principale barriera all’acquisto pare essere la convinzione che l’utilizzo degli IoTnon dia un valore aggiunto alle persone e che il costo sia ancora elevato rispetto allo stesso oggetto “non connesso” (semplici orologi, bracciali, occhiali), con le ovvie differenze. Sembra poi esservi un certo timore su come viene gestita la privacy sugli indossabili, con la paura che sia i dati conservati sul dispositivo che quelli raccolti con l’esperienza quotidiana possano essere facilmente trasmessi all’esterno.  

Ed è proprio quest’ultima problematica quella che potrebbe avere le conseguenze maggiori nello sviluppo di nuovi indossabili o, più generalmente, di “Internet degli oggetti”. Come ci spiega Bennato: “Gli scenari problematici sono due: la privacy e la sicurezza. Il primo punto è una conseguenza del monitoraggio. Se un oggetto IoT produce dati, questi potrebbero essere relativi a persone e al loro utilizzo. La manipolazione di queste informazioni ricadrebbe nel discusso campo della trasparenza e trattamento dei dati personali. La sicurezza è invece una conseguenza del controllo: se qualunque oggetto può essere comandato a distanza, potrebbe anche essere attaccato da criminali informatici.  

Ed è per questo che quando si parla di IoT entrano in gioco altre tecnologie, come l’IPv6 (il nuovo protocollo internet che permetterà di aumentare il numero di indirizzi IP a disposizione), Big Data (la raccolta di informazioni dettagliate su uno specifico individuo) e cloud computing, in riferimento alla sicurezza e stabilità delle infrastrutture che conservano le informazioni inviate e scambiate tra dispositivi IoT e tradizionali, smartphone, tablet e computer ma anche i data center delle aziende.” FONTE





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